Manager vs Atleti
Marchionne vs. Messi
“Tutti i giorni affronti le critiche, tutti i giorni affronti le sfide, ma queste cose sono lì per rendere più forte e determinato il tuo impegno” – David Robinson
Gli atleti devono riuscire a essere altrettanto pronti mentalmente di quanto lo sono fisicamente, tecnicamente e tatticamente. I manager devono riuscire ad utilizzare in egual misura le competenze trasversali, ossia quelle capacità personali che vanno dall’atteggiamento in ambito lavorativo, alla gestione delle relazioni personali, la leadership, l’intelligenza emotiva, il teamwork e il problem solving, che le competenze tecnico-professionali.
In entrambi i casi citati per l’atleta come per il manager la base su cui costruire il proprio successo è lo sviluppo delle competenze specialistiche, le cosiddette hard skills. Il 99% degli atleti e dei manager ha ben chiaro l’importanza di tali competenze, infatti dedicano la maggior parte del proprio allenamento/formazione all’apprendimento delle tecniche di base del proprio lavoro. Bisogna riconoscere che il panorama formativo è assai esteso. Occorre semplicemente scegliere a quale allenatore o formatore rivolgersi e poi dedicarci tempo e impegno. Il resto viene da sé: questo tipo di apprendimento è intuitivo e diretto.
Questo non basta!
Se fosse sufficiente in giro per il mondo saremmo pieni di Messi e Marchionne. Se servisse unicamente applicarsi e conoscere la teoria e la tecnica, saremmo tutti predestinati a diventare campioni o top manager. Invece anche chi è dotato di queste competenze non sempre ha successo.
L’insieme delle caratteristiche hard quali conoscenze tecnologiche, padronanza nell’utilizzo di macchine, delle attrezzature e dei software, le conoscenze legali, amministrative, contabili, logistiche vanno a formare il nostro potenziale professionale come del resto la potenza, la resistenza, la tenacia, l’elevazione, la velocità di esecuzione, le competenze circa la tecnica dello sport di riferimento, la conduzione tattica della gara o di una situazione specifica della stessa sono le competenze che determinano il potenziale dell’atleta.
A questo punto si torna all’equazione della prestazione di Gallwey:
P = p – i
Dove “P” sta per prestazione, “p” è il potenziale e “i” rappresenta le interferenze.
Oltre alle interferenze esterne, quali l’ambiente che ci circonda, il mercato di riferimento, i colleghi, compagni di squadra, gli arbitri, i clienti, i fornitori, il pubblico etc, che non sono sotto il nostro controllo diretto, esistono interferenze interne che agiscono sul nostro potenziale. Le interazioni, e questo non è così scontato per tutti, possono avvenire in detrazione e anche in addizione.
Cosa ci impedisce di realizzare il nostro potenziale?
La paura del fallimento – È molto facile per un atleta mettere in discussione sé stesso e temere i risultati negativi che possono verificarsi. Allo stesso modo un manager può essere soffocato dallo stress per la paura di non raggiungere gli obiettivi. In questi casi la mente costruisce già un film con finale horror della prestazione generando una profezia auto verificante.
Preoccuparsi troppo di quello che pensano gli altri – Gli atleti spesso cercano approvazione dai loro compagni di squadra, dagli allenatori, dalle famiglie e dagli amici; allo stesso modo un manager vuole riscontri di quello che fa da collaboratori, colleghi e capi. Entrambi non si rendono conto che stanno basando la loro felicità e la fiducia delle proprie prestazioni su qualcosa che non hanno assolutamente sotto controllo.
Portare i nostri problemi personali sul campo/in ufficio – Gli atleti spesso consentono a distrazioni esterne di influenzare il loro gioco sul campo. Le emozioni sono una parte naturale della nostra vita, ma portandone il peso nell’ambiente lavorativo non si rinforza di certo l’attenzione e il focus verso i dettagli che compongono le nostre prestazioni.
Rimanere legati ad eventi passati -Molti atleti non riescono a chiudere completamente le partite nella propria mente, qualcosa rimane attivo dopo l’ultimo tiro, colpo, rigore sbagliato. La partita successiva inizia proprio da lì, dal peso di un errore passato che non è uscito dalla nostra mente. Allo stesso modo in ufficio un errore commesso, uno scontro con un superiore o un collega, possono rimanere nella mente di un manager e creare terreno fertile per l’insicurezza e la mancanza di autostima. Le esperienze passate non sono necessariamente un indicatore delle performance future.
La mancanza di fiducia – La fiducia è uno strumento che consente ad un atleta di superare le aspettative, è il carburante che consente di spingere il proprio motore al massimo, è l’interruttore che ci attiva al raggiungimento del successo, è il lubrificante del gioco di squadra. Se è così perché troppo spesso ci sabotiamo? Quante volte nei nostri dialoghi interni abbiamo sentito le seguenti frasi: “Lui è troppo più veloce di me”, “La concorrenza è troppo competitiva rispetto a noi”, “loro sono imbattibili”, “il mio capo non mi apprezza”, “il mio allenatore non mi capisce”, “certo se qualche volta chiedesse la mia opinione”, “certo se qualche volta mi passasse la palla”, “se questo lavoro l’avessi fatto io”, “se avessi fatto io l’ultimo tiro”, “non sarò mai capace di parlare in pubblico”, “non riuscirò mai a migliorare quest’aspetto del gioco”.
Insomma nello sport come nel business dobbiamo imparare ad eliminare le interferenze per raggiungere il massimo del nostro potenziale. Come? Se per le competenze tecniche che aumentano il potenziale bastano allenamento e formazione, per le competenze trasversali l’apprendimento è meno scontato. Il punto fondamentale è avere la consapevolezza delle risorse di cui si ha bisogno, attraverso un percorso di autoanalisi si può ricercare le proprie debolezze e allo stesso tempo nuove concezioni di sé e del rapporto con gli altri. Io sono fermamente convinto che nell’ambito sportivo come in quello manageriale il miglior modo per realizzare quanto sopra sia trovando un buon coach e iniziando un percorso comune di accrescimento.